Text Box: Il divieto della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti nelle sentenze della Corte di Strasburgo

60° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo

Il divieto della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti nelle sentenze della Corte di Strasburgo

Nel 2010, per celebrare il 60° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il Consiglio d’Europa propone una panoramica della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di protezione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione. Inoltre, in considerazione del fatto che la lotta contro la tortura rappresenta uno degli elementi fondamentali delle sue attività, l’Organizzazione partecipa alla giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, celebrata il 26 giugno.

L’articolo 3 della Convenzione, intitolato “Divieto della tortura”, stabilisce che “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti” e non prevede nessuna deroga o eccezione, contrariamente ad altre disposizioni della Convenzione. La Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione di tale articolo fornita nelle sue sentenze, ha affermato a più riprese che, anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo, la Convenzione pone un divieto assoluto della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dalla condotta e dagli atti della persona sospettata.

Nelle sue interpretazioni la Corte ha altresì ribadito che, perché sia constatata una violazione dell’Articolo 3, un maltrattamento deve raggiungere una soglia minima di intensità delle sofferenze inflitte, e che è indispensabile valutare l’insieme delle circostanze del caso, quali la durata, gli effetti fisici o mentali, nonché altri fattori, quali lo scopo ricercato.

Nelle sue sentenze la Corte ha riconosciuto che un trattamento è “inumano” se è stato applicato con premeditazione, a lungo, e ha provocato lesioni corporali o profonde sofferenze fisiche o mentali. D’altro canto, ha giudicato “degradante” ogni trattamento che ha creato sentimenti di paura, angoscia e inferiorità tali da umiliare e avvilire le vittime, spezzare la loro resistenza fisica o morale o spingerle ad agire contro la loro volontà o la loro coscienza.

La Corte, per stabilire se una forma di maltrattamento debba essere considerata un atto di tortura, afferma che, tra gli altri fattori, occorre determinare l’intenzione deliberata di infliggere un maltrattamento tale da provocare gravi e crudeli sofferenze. La Corte ha inoltre concluso che le minacce di ricorrere alla tortura possono in certi casi costituire almeno un trattamento inumano.

Interrogatori di polizia - Gäfgen c. Germania

Una delle ultime sentenze della Corte riguarda il ricorso presentato da Magnus Gäfgen, che sta scontando l’ergastolo dopo essere stato riconosciuto colpevole, nel 2003, del sequestro e dell’assassinio di un ragazzo di 11 anni. Il ricorrente sosteneva di essere stato torturato durante un interrogatorio, nel corso del quale la polizia lo aveva minacciato di maltrattamenti per obbligarlo a confessare dove aveva nascosto la vittima; lamentava inoltre di non avere beneficiato di un equo processo.

Nei procedimenti precedenti, i tribunali tedeschi avevano già concluso che le minacce della polizia costituivano una violazione della legislazione nazionale e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che la confessione ottenuta nel corso dell’indagine non poteva essere utilizzata come prova, ma avevano ciononostante condannato il ricorrente sulla base di prove supplementari e di una nuova confessione. A seguito dell’indagine su quanto sostenuto dal ricorrente, gli agenti di polizia coinvolti nel caso sono stati processati e condannati.

Nella sentenza finale, la Corte di Strasburgo ha concluso che il ricorrente aveva beneficiato di un equo processo. D’altra parte, pur riconoscendo le motivazioni degli agenti di polizia, che volevano salvare la vita di un bambino, la Corte ha ritenuto che hanno sottoposto il ricorrente a trattamenti inumani, che rientrano nell’ambito dell’articolo 3.

La Corte ha pertanto concluso che c’è stata violazione dell’articolo 3 da parte delle autorità tedesche, che non hanno accordato un’equa riparazione al ricorrente, pur riconoscendo gli abusi commessi dalla polizia. La Corte ha altresì indicato che le sanzioni imposte agli agenti di polizia per i maltrattamenti non erano sufficientemente severe per avere un effetto deterrente e per prevenire future simili violazioni.

Rischio di essere sottoposto a tortura – Saadi c. Italia

Nel caso Saadi c. Italia, la Corte ha ritenuto che se fosse stata applicata la decisione delle autorità italiane di espellere il ricorrente verso la Tunisia, ci sarebbe stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Nassim Saadi, tunisino residente a Milano, sosteneva di essere stato condannato in contumacia in Tunisia nel 2005 a 20 anni di detenzione per appartenenza a un’organizzazione terroristica, e che, in caso di espulsione, sarebbe stato esposto al rischio di tortura o di trattamenti inumani o degradanti.

La Corte ha concluso che il ricorrente apparteneva a un gruppo a rischio di tortura e altri maltrattamenti e che esistevano fondati motivi per ritenere che vi fosse un rischio concreto di trattamenti contrari all’articolo 3, se fosse stato espulso verso la Tunisia.

Tortura e assenza di investigazioni – Chitayev e Chitayev c. Russia

I ricorrenti, Arbi Chitayev e suo fratello Adam Chitayev, hanno lamentato che nel corso delle ostilità in Cecenia nel 2000 tra l’esercito russo e i ribelli ceceni, gli agenti statali hanno perquisito a più riprese la loro abitazione. Dopo una di tali perquisizioni, sono stati arrestati e interrogati sulle attività dei ribelli ceceni. Hanno affermato dinanzi alla Corte di essere stati torturati per ottenere una falsa confessione.

La Corte ha notato che i certificati medici rilasciati il giorno dopo la loro liberazione confermavano la presenza di varie lesioni. In considerazione della coerenza delle loro affermazioni dettagliate, corroborate dai certificati medici, la Corte ha concluso che il Governo russo non aveva potuto dimostrare che le ferite dei ricorrenti non erano state causate dai maltrattamenti inflitti durante la detenzione. Ha riconosciuto che le sofferenze da loro patite erano particolarmente gravi e crudeli e che erano assimilabili alla tortura, in violazione dell’articolo 3.

La Corte ha concluso inoltre che c’è stata violazione dell’articolo 3, poiché le autorità russe non hanno condotto investigazioni approfondite ed efficaci, nonché violazione degli articoli 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 13 (diritto a un ricorso effettivo).

Impunità dei torturatori - Bati e altri c. Turchia

Nel caso Batı e altri c. Turchia, la Corte ha riconosciuto la violazione del diritto di non essere sottoposto a tortura e del diritto a un ricorso effettivo per 15 cittadini turchi.  Nel 1996, nell’ambito di un’operazione di polizia contro un’organizzazione marxista illegale, il TKEP/L (Partito comunista turco marxista/leninista), le forze di polizia di Istanbul avevano arrestato e trattenuto i ricorrenti per interrogarli.

I ricorrenti hanno presentato un ricorso dinanzi alla Corte, lamentando di essere stati sottoposti a vari tipi di maltrattamenti durante la detenzione. Hanno affermato che le autorità non avevano condotto effettive indagini sul loro caso e che non avevano perseguito penalmente con la dovuta celerità gli agenti delle forze dell’ordine accusati di torture e di maltrattamenti, per cui i principali autori degli atti di violenza hanno potuto godere di una quasi totale impunità, malgrado la presenza di prove irrefutabili.

Violenze ripetute duranti gli interrogatori – Selmouni c. Francia

Nella sentenza pronunciata nel 1999 nel caso Selmouni c. Francia, la Corte ha riconosciuto la violazione degli articoli 3 e 6 § 1 (diritto a un’equa udienza entro un termine ragionevole). Nel 1991 il ricorrente, Ahmed Selmouni, sottoposto a custodia cautelare, era stato interrogato per quattro giorni dagli agenti di polizia nell’ambito di un caso di traffico di droga. Gli esami medici praticati successivamente hanno indicato numerose lesioni corporali che gli erano state inflitte durante la custodia cautelare.

La Corte ha stabilito che il ricorrente era stato sottoposto a sofferenze fisiche e mentali, inflitte allo scopo di fargli confessare di avere commesso i fatti di cui era sospettato. La Corte ha ritenuto che le violenze che gli erano state inflitte gli hanno causato profonde sofferenze e gravi dolori fisici, assimilabili alla tortura, ai sensi dell’articolo 3.

Mammadov (Jalaloglu) c. Azerbaigian

Il ricorrente, Sardar Jalaloglu Mammadov, meglio noto come Sardar Jalaloglu negli ambienti politici, era il segretario generale del Partito democratico dell’Azerbaigian, uno dei partiti dell’opposizione che aveva messo in discussione la legittimità delle elezioni presidenziali del 15 ottobre 2003, denunciando gravi frodi elettorali. Nell’ottobre 2003, gli attivisti dell’opposizione avevano partecipato a Baku a manifestazioni non autorizzate di protesta contro l’esito delle elezioni, che si erano concluse con violenti scontri con le forze dell’ordine.

Secondo quanto affermato dal ricorrente, dopo queste manifestazioni alcuni agenti di polizia hanno fatto irruzione senza mandato nella sua abitazione e lo hanno arrestato e condotto al Ministero dell’interno, dove gli è stata mossa l’accusa di “avere organizzato le sommosse” e di “violenze contro agenti statali” per il presunto ruolo da lui svolto nel corso degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Ha dichiarato di essere stato oggetto di maltrattamenti. Numerosi giorni dopo, è stato esaminato da medici statali, che hanno riscontrato lesioni corporali. Ha presentato ricorso presso la Corte di Strasburgo nel 2004.

La Corte ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3, in considerazione dei maltrattamenti subiti durante il fermo di polizia, e dell’assenza di effettive investigazioni, nonché la violazione dell’articolo 13. Per quanto concerne la difesa del Governo, che sosteneva che il ricorrente non aveva presentato prove sufficienti dei maltrattamenti inflitti dalla polizia, la Corte ha notato che i poteri pubblici, pur contestando l’accusa di maltrattamenti, non sono stati in grado di fornire ragionevoli spiegazioni sulle cause delle lesioni. La Corte ha inoltre constatato numerose lacune e omissioni nelle indagini ufficiali e ha concluso di conseguenza che non è stata condotta nessuna indagine effettiva.

Per maggiori dettagli su queste o altre sentenze riguardanti l’articolo 3, invitiamo a consultare il database della Corte HUDOC  (http://www.echr.coe.int/echr/en/hudoc ).

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Aggiornamento: giugno 2010